Del successo travolgente in Francia del libro Bonjour paresse avevo già letto sui giornali. Da dipendente media di una grande azienda – quale è anche l’autrice del libro – era soprattutto il sottotitolo ad attirarmi: “Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile”.
Non che mi interessi come obiettivo: ho sempre pensato che evitare il lavoro sia faticosissimo, si fa prima a farlo. Però mi sono sempre chiesta perché in azienda c’è chi lavora moltissimo e chi niente, perché alcune persone sono sempre sotto pressione e altre vengono mandate continuamente a fare costosi corsi di formazione anche se poi non producono nulla.
Cercavo nel libro qualche trucchetto per alleggerirmi, io che raramente riesco ad avere una mezza giornata per leggere o navigare. Non mi è mai piaciuto inboscarmi, ma insomma lavorare un po’ meno in alcune circostanze non mi dispiacerebbe. Qualche giorno fa un amico mi ha detto che lui nella sua azienda riesce a fare solo quello che gli piace. “Ma come fai?” gli ho chiesto. “Semplice. Quello che non mi piace non lo faccio e così alla fine non me lo chiedono più”. Strada impraticabile per me, che ho un super-io alto come un grattacielo e che quindi faccio tutto, anche quello che non mi piace, e magari meglio di quello che mi piace.
Venerdì il libro Buongiorno pigrizia usciva in edizione italiana, per i tipi di Bompiani, e venerdì mattina alle 7.30 io ero nella libreria Feltrinelli dell’aeroporto mentre impilavano i libretti nuovi nuovi.
Ho preso la mia (piccola) copia e nell’attesa dell’aereo mi sono messa a leggere. Mi è stato subito chiaro che non vi avrei trovato nulla di ciò che cercavo, ma il ritratto della grande azienda di oggi – un mastodonte un po’ inutile -, con i suoi riti e le sue gerarchie, mi ha divertita moltissimo.
Un ritratto impietoso e a tratti esagerato che passa soprattutto attraverso l’analisi e la caricatura del linguaggio aziendale, uguale ormai in tutto il pianeta. E questo sì, che mi ha interessata.
E’ ciò che l’autrice Corinne Maier chiama la neolingua e che si basa su cinque regole:
- L’impresa complica ciò che può essere semplice. Usa “inizializzare” invece di cominciare, verbo sin troppo triviale, “finalizzare” invece del molto comune finire, e “posizionare” al posto del ben più terra-terra mettere.
- Seleziona il proprio lessico per darsi più importanza di quanta non ne abbia realmente. “Coordinare”, “ottimizzare” sono più carichi di eseguire. Ma è “decidere”che troneggia nel pantheon dei verbi, a breve distanza da “dirigere” e “capitanare”. Non lesina, d’altro canto, nelle parole in “-enza”: pertinenza, competenza, esperienza, efficienza, coerenza, eccellenza, tutte espressioni che danno, in apparenza, molta importanza.
- Considera la grammatica un relitto d’altri tempi. Abusa di cinrconlocuzioni, rigonfia la sintassi, si riveste di tutta una chincaglieria di temini tecnici e amministrativi, e violenta le parole. E’ in grado, inoltre, di trasformare la lingua con grande maestria: ama alla follia i trasferimenti semantici. Ad esempio, il verbo “declinare” normalmente utilizzato per “declinare un invito” o per “declinare un verbo” viene utilizzato con qualche forzatura per esprimere un concetto che non gli è proprio. “Declinare” un logo, un messaggio, un valore, significa adottare questi elementi sotto altre forme, situarli più in alto. Allo stesso modo, l’impervensante “soluzionare” rimpiazza senza colpo ferire il più casereccio risolvere, perché fornisce al concetto di “”soluzione” una prestanza fisica che altrimenti non sarebbe stata apprezzabile.
- La lingua d’impresa manifesta la visione politica di un potere impersonale che non cerca di convincere, né di dimostrare o sedurre, quanto piuttosto di affrancare dalle difficoltà reali escludendo qualsiasi giudizio di valore. Lo scopo? Farvi obbedire. Attenzione, Goebbels, braccio destro di Hitler, lo ha già detto: “Noi non parliamo per dire qualcosa, ma per ottenere un certo effetto”. E la neolingua dell’impresa è spesso a metà strada fra la frase oggettiva pseudo-scientifica e il clangore perentorio dello slogan. Il risultato: “Si deve accentuare la cooperazione tra i reparti”, “Occorre sforzarsi di imprimere nuove metodologie operative per la deadline del 15″, “L’attuazione degli orientamenti definiti dal progetto di servizio resta e resterà una priorità”.
- La lingua di impresa percorre solo strade ultrabattute e perfettamente note in ogni minimo dettaglio. Anche se privo di un significato intellegibile, questo linguaggio può tuttavia essere decifrato: un testo, un comunicato, manifesta il suo senso solo attraverso i proipri scarti da un codice implicito. Ogni contravvenzione al cerimoniale rivela qualcosa. Così, se proprio non avete nulla di meglio da fare, potreste diventare esperti di neolingua…
(pgg. 28-30)
Una soluzione possibile? “Uno stage di ritorno alla lingua madre”. Sottoscrivo in pieno.
grandioso!
c.
An answer from an expert! Thanks for contnibutirg.
Cominciato a leggerlo sabato…. è troppo vero. E’ importante ricordare che nel LINGUAGGIO si mescolano IDIOZIE e MENZOGNE. Io quadro distrutto dal sistema-impresa non so più come difendermi da orde di dirigenti il cui lavoro è solo tramare nel buio per accoltellare questo o quell’altro (i più inermi) alle spalle, a turno, senza una logica. Lo squallore dell’ipocrisia purtroppo impera.
un ciao ormai disilluso
flygame
Condivido, odio i neologismi cervellotici. (I politici di mezza tacca ne fanno un uso smodato)
Namasté
anche io odio il cosidetto aziendalese, grazie per gli spunti di riflessione.
firmato linguista in erbetta
Bellissimo!
Sembra la giusta meta’ di L’uomo di marketing e la variante limone – di Walter Fontana che per me e’ la bibbia 🙂 –
Non so se lo conosci, puoi tovare un capitolo qui:
http://www.lauragua.com/source/confusedpxl/lemonlemon.html
A presto
Laura
Prenoto già 10 copie del libro che Luisa scriverà presto(anche con pseudononimo): “Memorie di una comunicatrice d’impresa”.
10 solo per cominciare.
Tolli
scusate ma iNboscarsi si scrive anche con la n? un po’ è pedanteria e un po’ è pura curiosità
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