Ho sempre amato le lingue straniere, fin da piccola. Uno dei miei primi libri veniva dalla Germania, era un album con i fogli spessi di cartone e illustrava con immagini dettagliatissime la casa, la fattoria, la stazione, la scuola e molti altri luoghi della vita quotidiana. Oggi oggetto, ogni persona, aveva la sua parolina tedesca accanto. Io non sapevo ancora leggere, ma le parole mi venivano lette, con una pronuncia più o meno attendibile.
Più grande, oltre al tedesco, ho studiato altre lingue e le studio tuttora.
Questa settimana ho incontrato da vicino due lingue che non conoscerò mai, ma che mi piace immaginare. Due lingue in cui sono state scritti i libri più importanti per la religione e il pensiero di oriente e occidente.
In sanscrito sono stati scritti i Veda, i più antichi testi indiani, forse i primi testi letterari che siano mai stati scritti. In ebraico è stata scritta gran parte della Bibbia.
Il sanscrito è una lingua indoeuropea sorella del greco e del latino, ma non immaginavo che fosse una sorella così stretta. L’ho scoperto sabato pomeriggio, passando due ore a sentir parlare di una lingua sconosciuta, ma che mi sembrava di “vedere” e immaginare mentre ascoltavo.
Una lingua che non si impara dalla madre, ma a scuola, nel corso di moltissimi anni. E’ la lingua della cultura, della comunicazione “alta”, affidata solo ai bramini – “i parlanti ideali” – e quindi unicamente ai maschi. Una lingua quasi perfetta, una cattedrale costruita a tavolino da architetti, dal potere linguistico assoluto, talmente complessa da essere definita una “grammatica senza lingua”. Talmente ricca, ambigua e metaforica da aver dato origine a una letteratura, quella indiana, fatta al 90% da commenti a testi originali. Testi che possono essere letti e interpretati in maniera completamente diversa, addirittura opposta.
Una lingua i cui testi scritti 2000 anni fa sono comprensibili ancora oggi e che è cambiata pochissimo nei secoli. Nel sanscrito non nascono nuove parole, sono quelle che già esistono che nel tempo assumono sempre più significati.
Se in sanscrito ho ascoltato soltanto le parole che definiscono le posizioni yoga o i mantra, come chiunque pratichi e studi questa disciplina, in ebraico ho ascoltato interi e lunghi discorsi, pur non capendo nulla. In Israele, in sinagoga, in libreria.
Negli ultimi giorni ho letto un piccolo libretto, molto interessante, che raccoglie una serie di interviste di Philip Roth ad altri scrittori soprattutto ebrei, israeliani e non. Famosi come Primo Levi, Singer e Saul Bellow, altri a me sconosciuti come Aharon Appelfeld e Ivan Klima. Il libro si intitola Chiacchiere di bottega ed è pubblicato da Einaudi nella serie dei Tascabili.
Aharon Appelfeld, nato in Bucovina e vissuto come un piccolo nomade nei boschi sopravvivendo all’Olocausto, arrivò in Palestina a quattordici anni. Solo allora imparò l’ebraico, la sua lingua di scrittore: “Ho imparato l’ebraico con grande fatica. E’ una lingua difficile, austera e ascetica. Il suo antico fondamento sta nel proverbio della Mishnà: ‘Il silenzio è il recinto della saggezza’. La lingua ebraica mi ha insegnato a pensare, a essere parco con le parole, a non usare troppi aggettivi, a non intervenire troppo, a non interpretare. Dico, ‘Mi ha insegnato’. Di fatto ti obbliga a farlo”.
Ho iniziato da qualche anno a studiare l’ebraico per amore della Bibbia. Insieme ad alcune persone come me, sillabiamo lentamente, guidati con pazienza da un anziano rabbino. E’ bello, si fanno molte scoperte.
Patrizia
C’è un errore di battitura “oggi” anziché “ogni” nella terza frase.
Il libro tedesco della tua infanzia è, probabilmente, lo stesso che adoravo e leggevo io! I paesaggi erano bellissimi disegni ricchi di particolari, che amavo scoprire uno ad uno. Credo di averlo ancora!
Il libro “Chiacchere di bottega” non figura in ibs né nel catalogo Einaudi on line
[…] Lingue immaginate […]