Un post di Beba Manno sul suo Taccuino di traduzione mi ha ricordato il capitolo conclusivo di uno dei volumi dedicati alla punteggiatura pubblicati ormai qualche anno fa da Rizzoli per Holdenlab. Il tema di entrambi è “la punteggiatura che non c’è”.
Josh Greenman, su Slate, vorrebbe avere il “punto sarcastico”, che sarebbe per il linguaggio ciò che è il chiaroscuro per il disegno, il colore per la televisione, le sopracciglia per l’espressione. Una questione di finesse.
Nel libro invece alcuni scrittori italiani fanno altre scelte.
Baricco desidera un segno che segni una rottura brusca della frase più che una sua chiusura, qualcosa di più forte dei punti di sospensione, per esempio lo slash.
Enzo Fileno Barabba propone i segni di inclusione, che stiano per “se… allora”, tutti curve e lineette.
Marosia Castaldi rovescerebbe verso destra i segni di interpunzione tradizionali, verso il futuro quindi, e non verso il passato del testo “facendo accavallare onda dopo onda, le cose gli oggetti le persone gli uni sugli altri riducendone la separatezza”.
Luca Doninelli sogna “qualcosa di leggero e discreto capace d’indicare il variare del tono… un puntolino in alto, uno spirito”.
Ernesto Franco ripristinerebbe il “punto mobile”, quello seguito dalla minuscola, che riconosce l’anima inquieta della letteratura, mentre Sandro Veronesi e Dario Voltolini importerebbero dallo spagnolo i punti interrogativi ed esclamativi rovesciati ad inizio di frase.
Michele Mari vorrebbe un segno a forma di lacrima, Giulio Mozzi il solo trattino e non due, Emilio Tadini più libertà nell’uso degli spazi bianchi, perché “nel silenzio, la parola detta echeggia, provoca risposte, immaginazioni – pronunciate o taciute…”.
e tu hai qualche desiderio?
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Four score and seven minutes ago, I read a sweet arlteic. Lol thanks
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