Sono sempre stata allergica alle missioni aziendali, anche quando andavano molto di moda. Sono qualche volta stata costretta a scriverne, ma sempre con la sensazione di agitare aria fritta sulla pagina. Magari l’amministratore delegato era contento di brandire mission (e vision) sulle prime slide di ogni presentazione, ma io quande le vedevo mi mortificavo da sola.
Non perché pensi che un’azienda non debba averla, ma perché sono convinta sia più utile conoscerla, elaborarla e poi fare in modo che informi tutta la comunicazione, non una slide o il frontespizio della brochure istituzionale.
Così, oggi, quando ho visto che l’attrezzo n° 36 della cassetta di Roy Peter Clark si intitolava Mission Statement mi sono detta “No, pure lui!”.
Invece il saggio editor di Poynter si riferiva a qualcosa di diverso: la missione di chi scrive di fronte ai propri lavori. Devo scrivere una brochure? Allora la mia mission sarà: “Dare un taglio tutto nuovo alla brochure istituzionale, attraverso i racconti di cosa l’azienda fa concretamente per l’utente finale, il cittadino. Quindi storie, storie, storie”. Devo presentare un nuovo prodotto? “Per una volta, mescoliamo le carte: cominciamo con una slide un po’ misteriosa e sveliamo il prodotto solo verso la conclusione”. Il bilancio di sostenibilità? ”
La mia missione è di usare un linguaggio più caldo rispetto all’annual report. Nell’illustrare le iniziative dell’anno, usiamo almeno sempre la prima persona plurale e poi un lessico più emozionale e meno tecnico”.
Avere chiara la propria missione di fronte a un lavoro – soprattutto se nuovo e di una certa complessità -, e poi scriverla, può essere estremamente utile. Ci ricorda lungo tutto il corso del lavoro dove dobbiamo e vogliamo arrivare, tenendo la barra al centro e non cedendo a troppi compromessi che snaturino lo spirito e l’obiettivo che ci eravamo posti.
Ottimo. Come sempre sei riuscita a condensare in poche, chiare parole il vero senso della comunicazione: aver chiari contenuti, obiettivi e destinatari e utilizzare gli strumenti più adatti allo scopo; non voler sempre “dire tutto”, ovunque, ma concentrarsi di volta in volta su un “focus” (ahimè sì) diverso, rimanendo comunque e sempre coerenti e lontani dai luoghi comuni (le mission di aria fritta, appunto).
Peccato soltanto per quel “tenendo la barra al centro”: corretto, per carità. Ma non sa un pochino di politichese? 😉 Auguri Luisa, e sempre diecimila volte grazie.
sono completamente di accordo, tuttavia non è semplice riuscire a comunicare con la necessaria dose di estetica delle parole.
mi spiego con un esempio:
nell’ultimo periodo per ben due volte ho tentato di dare una interpretazione nuova del documento di presentazione aziendale, costruendo una piccola storia ed omettendo di usare la parola soluzioni (che non significa nulla a mio avviso).
il risultato è stato riscrivere più volte fino ad arrivare ad un compromesso instabile, sospeso tra il vecchio ed il normale.
pazienza, sarà per la prossima volta.
Ciao Luisa,
io penso che di fatto non c’è differenza tra la mission di un’azienda e la mission di uno scrittore.
Sono entrambe promesse di fare qualcosa di un certo tipo, con un certo stile, per conseguire un certo obiettivo.
Entrambe possono essere aria fritta se è l’aria fritta ciò che le muove.
La mission di un’azienda può essere la bussola che orienta il lettore al primo approccio verso di essa.
Da sola certamente non basta a trasmettere nella sua interezza l’universo che c’è dentro gli stabilimenti aziendali, perché tale universo va visto, ascoltato, vissuto, messo alla prova interagendo con esso, ma può contenere delle preziose anticipazioni, sia positive che negative, sul carattere dell’azienda o su quello di chi la guida.
Le mission dicono la verità, anche quando mentono.
In questo senso credo che esse non siano aria fritta.
Io penso che l’aria fritta è quella che si respira in certe aziende, belle scatole, spesso vuote o piene solo di sé.
Tanti auguri di buon anno.
Ciao Gabry