In questi giorni sto rileggendo alcuni capitoli del bel libro di Annamaria Testa Farsi capire.
L’autrice cita l’inizio di un testo rivolto a cittadini extracomunitari che devono fare richiesta di un documento. Testo che parte così: “L’istante…”, dove l’istante non è il momento, l’attimo fuggente, ma il poverino che deve fare la domanda, cioè presentare la sua istanza. Non ci capirà nulla, oppure si illuderà di ottenere il documento in un istante. Che ci vuole a rileggere un testo, magari a voce alta, mettendosi dalla parte del destinatario?
L’anno scorso, in una importante libreria romana, l’occhio mi è caduto sulla locandina di un corso di scrittura creativa che si teneva proprio in quella libreria. Una introduzione accattivante e poi un elenco puntato sul contenuto del corso. Uno di questi era: affronto delle principali tecniche narrative. Affronto, cioè ingiuria, offesa.
E che dire dell’azienda del trasporto pubblico romano, che sta investendo giustamente milioni di euro in comunicazione ma non riesce a scrivere dei testi comprensibili per buona parte dei suoi utenti a bordo di bus e treni? Un sito davvero eccellente, pieno di servizi utili, persino un elegante libretto che mi viene recapitato a casa ogni sei mesi per informarmi di sconti e convenzioni in teatri, negozi e librerie che posso ottenere in quanto abbonata.
Poi l’avviso standard sui treni informa sui “nuovi titoli di viaggio”, che sarebbero i normali biglietti. Si invitano gli abbonati a “esibire” l’abbonamento all’entrata, che potrebbe essere sotituito da un semplice “mostrare” o “far vedere”, visto che “esibire” fa pensare a tutt’altro. Mentre i controllori sono diventati il “personale aziendale”… elegantissimi nei loro nuovi completi blu e cravatta regimental.
A Roma – è noto – a prendere i mezzi pubblici sono soprattutto anziani, studenti, extracomunitari, turisti stranieri. Che ne sanno loro del “personale aziendale”? Meglio il vicino testo in inglese: sintetico, impeccabile e chiarissimo. Per chi sa l’inglese.
Grazie, Luisa,
per richiamare la nostra attenzione sul destinatario,
spesso dimenticato.
Sono arrivata qui perche’ alcuni tuoi amici/colleghi
hanno segnalato questo sito durante le lezioni di un master.
Un fine? Imparare a sciogliere i vari burocratese, aziendalese, complicatese,
spesso foglie di fico di pensieri contorti.
E quindi grazie per i consigli,
e per la fantasia che, come tu mostri,
si unisce, ariosa, alla semplicita’.
anna
A proposito di burocratese: lavorando in un ufficio stampa comunale, ne vedo di cose…noi tentiamo in tutti i modi di sciogliere gli arcani della lingua “comunale” ma poi ci si mettono gli amministratori. Il sindaco ti chiama per un comunicato stampa e conia neologismi: “Antropizzazione del territorio comunale” è una delle ultime…vaglielo a dire ai cittadini che intendeva dire “aumento della popolazione residente in talune aree”…la verità è che a volte è bello e più facile circondarsi di paroloni diffici: aiuta ad avere un po’ più di autorità, che come insegnano, non è lo stesso di autorevolezza…
peste
Il mondo dei trasporti pubblici ha il suo gergo, che non sempre è ridondante. Per esempio, in una azienda di trasporto pubblico ha senso distinguere il titolo di viaggio dal biglietto. ‘Titolo di viaggio’ comprende i biglietti di corsa semplice che gli abbonamenti, oggetti trattati diversamente dalle aziende di trasporto. Altra cosa, certamente, è la comunicazione con il pubblico, che dovrebbe il più possibile evitare il gergo senza pero’ rinunciare alla precisione.
Patrizia
Cara Luisa,
Continuo a navigare nel tuo blog.
Mi ricordo, avevo 11 o 12 anni, leggevo un libro molto divertente di Bertrand Russel tradotto in italiano, all’epoca non leggevo in inglese: Storia della Filosofia Occidentale.
Mi colpí perché il grande filososfo matematico inglese disse che quello che non si può esprimere con parole semplici non vale la pena di essere detto. Non sono le sue parole testuali, ma è il senso di quello che diceva che restò con me sino ad ora, dopo piú di trent’anni, e che mi ha spinto a viaggiare e conoscere il mondo in cui viviamo.
Ho vissuto in quattro paesi differenti ed in due continenti e penso spesso che vorrei andare via da qui (abito in Brasile) e vivere in Tasmania o in Islanda. Ma in tutti i paesi dove ho vissuto ho incontrato lo stesso problema sull’uso della lingua. Il problema di alcune persone che, quando dovrebbero parlare con chiarezza perché stanno parlando al popolo, parlano usando un gergo proprio di una classe politica o di una categoria di professionisti o di artisti o di accademici.
Questo, cara Luisa, non è un problema solo italiano, ma è un problema umano.
È il problema di un essere umano che, invece di cercare di comunicare con i suoi simili usando la lingua, tenta di imporre la propria immagine e il proprio presunto potere nella vana corsa ad una superiorità già vanificata, nullificata dall’effetto della sua propria attitudine arrogante ed infantile nell’usare uno strumento, la lingua, per ottenere qualcosa per il quale quello strumento non fu inventato. Un po’ come quando, avendo un martello a disposizione, si usa una pietra per piantare un chiodo.
Questo è quello che si chiama, tecnicamente: Mentire.
Queste persone sono, dunque tecnicamente, delle persone bugiarde. Ma non in un senso morale, bada bene, qui la bugia è un termine tecnico che vuol dire “tutto quello che si fa volendo mostrare agli altri quello che non è”.
Ed è questo il caso di questi signori che, con i loro gerghi segretissimi, ci mostrano l’unica realtà che sono in grado di mostrarci: il loro isolamento dal genere umano in nome della loro presunta cultura e superiorità su di noi, “comuni” mortali.
Ora, in portoghese, “presunto” vuol dire “prosciutto”. Quindi la loro “presunta cultura” si potrebbe a buon ragione intitolare “la cultura del prosciutto”.
Penso che gli stia bene.