Questa settimana Roy Peter Clark tira fuori dalla cassetta degli attrezzi dello scrittore i nomi propri e per convincerci dell’efficacia e del potere evocativo dei nomi fa ricorso al famoso incipit di Lolita di Nabokov:
“Lolita, light of my life, fire of my loins. My sin, my soul. Lo-lee-ta: the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.
She was Lo, plain Lo, in the morning, standing four feet ten in one sock. She was Lola in slacks. She was Dolly at school. She was Dolores on the dotted line. But in my arms she was always Lolita.”
Noi scrittori aziendali abbiamo spesso paura dei nomi, delle cose come delle persone. Preferiamo scrivere “la Società”, il prodotto”, invece di nominarli ogni volta che possiamo.
E così nella comunicazione interna: i colleghi andrebbero sempre nominati e gli articoli sull’intranet firmati con i loro nomi, invece che coltivare la spersonalizzazione oggi tanto di moda. Spersonalizzazione che non è affatto sinonimo di professionalità, ma più spesso di freddezza e banalità.
E rivolgiamoci ai colleghi con il loro nome durante una presentazione. Non “come ha appena detto giustamente il collega”, ma “Francesco ci ricordava ora che…”, “Carla, forse volevi aggiungere qualcosa”.
Fa piacere a tutti che gli altri ricordino il nostro nome di battesimo e con quello si rivolgano a noi. Nella vita e nel lavoro.
direi che la spersoanlizzazione andrebbe eliminata anche nella realtà di tutti i giorni. la trovo, inoltre, una “politica” poco responsabile e “distante”.