Lunedì scorso stata dodici ore fuori casa per fare una riunione di due ore e mezza.
Il resto delle ore le ho passate in taxi, in aeroporto, in aereo.
Ma queste ore mi sono servite per leggere per intero un gran bel libro che mi trascinavo nello zaino da giorni: Piccolo viaggio nell’anima tedesca, delle due corrispondenti italiane in Germania Vanna Vannuccini e Francesca Predazzi.
Le due autrici parlano dell’anima tedesca di ieri e di oggi a partire da una serie di parole, esattissime nella loro aderenza al significato, intraducibili e inesistenti in altre lingue.
Sono quelle parole che rendono il tedesco una lingua unica, quasi una lingua “di riserva”, una miniera cui non finisce mai di attingere anche chi la conosce solo un po’.
Io il tedesco l’ho studiato a lungo e con passione, lo leggo molto, non lo parlo mai. Eppure è l’unica lingua, oltre l’italiano, in cui mi capita di pensare. E succede proprio perché ci sono quelle parole ed espressioni che non hanno un equivalente nella nostra lingua, ma che sono precisissime e insostituibili, soprattutto nell’esprimere i sentimenti. Come “parlare dall’anima” (aus der Seele sprechen), l’intraducibile gemütlich (caldo, intimo, affettuoso, confortevole, tranquillo, piacevole, tutto insieme), le tante sfumature di nostalgia (Sehnsucht, Wehmut, Heimweh, Nostalgie) a seconda di cosa ci manca e come.
L’italiano è una lingua ricca: ha circa 300.000 parole. Il tedesco ne ha 400.000, molte lunghissime e apparentemente impossibili da pronunciare. Sono le parole composte, che all’inizio sembrano una aberrazione linguistica e che dopo un po’ di studio affascinano per quel mettere i mattoncini in fila l’uno dopo l’altro, perfettamente allineati a esprimere concetti sempre più astratti ma di grandissimo potere evocativo.
Il tedesco non ti si appiccica addosso come lo spagnolo, lingua a torto considerata facile da noi italiani ma più vicina nei ritmi. Il tedesco te lo devi andare a prendere un po’ alla vecchia maniera, con la grammatica, ripetendo le declinazioni, imparando a memoria i verbi forti, scrivendo a mano su un quaderno i vocaboli.
Borges ha dedicato allo studio del tedesco dei versi bellissimi:
Pero a ti, dulce lengua de Alemania,
Te he elegido y buscado, solitario.
A través de vigilias y gramáticas,
De la jungla de las declinaciones,
Del diccionario, que no acierta nunca
Con el matiz preciso, fui acercándome.
Anche un grande scrittore di lingua tedesca ha raccontato in un romanzo questa conquista faticosa ma gratificante come poche altre. È Elias Canetti, nel primo volume della sua autobiografia La lingua salvata.
Il piccolo Elias, che scrivendo in tedesco avrebbe vinto il Nobel per la letteratura, ha imparato questa lingua a otto anni, in un tour de force di pochi mesi a Vienna, che avrebbe stroncato ogni velleità letteraria in chiunque. Prima di allora, era solo la “lingua dell’amore”, perché la parlavano tra loro i suoi genitori.
Il metodo didattico della giovane signora Canetti era quello di leggere da un libro una frase in tedesco e di farla ripetere al figlio infinite volte, fino al raggiungimento della pronuncia perfetta. Solo allora spiegava il significato, mai prima. E il libro lo teneva lei, senza mostrarne al figlio nemmeno una pagina:
“La mamma mi aveva costretto in un tempo brevissimo a un compito che andava al di là delle possibilità di qualsiasi bambino; il fatto che poi sia riuscita nel suo intento ha determinato la natura molto profonda del mio tedesco, che fu per me una lingua madre imparata con ritardo e veramente nata con dolore. Ma non restammo al dolore, ad esso seguì subito dopo un periodo di felicità che mi ha legato indissolubilmente a questa lingua.”
E io sono indissolubilmente legata a questo libro bellissimo, il primo che ho letto in tedesco. Quando arrivai alla fine delle quasi 400 pagine, capii che ce l’avevo fatta, che avevo scalato la vetta di questa lingua difficile, ma in cui “ogni cosa ha il suo posto e ogni posto ha la sua cosa”, come scrivono nell’introduzione le due autrici del libro che ha dato l’avvio a questo ormai lunghissimo post.
Il tedesco non conosce l’approssimazione: per questo devo a questa lingua non tanto l’aver imparato a scrivere, quanto l’aver imparato a riflettere sul linguaggio e quindi ad essere riuscita a fare della scrittura un mestiere.
Mia madre e’ tedesca, ed io ho pure il passaporto.
Ma il mio tedesco e’ ormai arrugginito.
Mi fai vergognare… sara’ meglio che mi rimetta sotto!
Saluti,
Roberto
🙂
Ho letto la tua riflessione e la scheda del libro. Mi sono piaciute. A il tesco manca, e sono uno di coloro che pensano al tedesco come lingua “dura” e la collego inconsapevolmente ai fatti dell’ultima guerra. Grazie, Ardovig
Ho letto i due ultimi post: le punteggiature e la lingua tedesca. In me è nata un’associazione interessante. Infatti, quando ho dovuto imparare a leggere e tradurre il tedesco (motivi di ricerca bibliografica per la tesi di laurea), ho notato che l’uso della virgola in tedesco è assai diverso dal nostro! Specialmente tra la frase reggente e la subordinata etc. etc. Comunque, quella tedesca è una lingua non solo bellissima e ricca, ma anche intelligente ed efficace da un punto di vista strettamente tecnico! (zabbio)
Elias Canetti ed il suo controverso rapporto con la madre. Come il mio. Lessi La lingua salvata d’un fiato, e mi appassionai a quel loro legame forte, tirannico, soffocante. Che poi si ruppe irrimediabilmente. Elias, il mio primo alias in rete…quante strade può prendere un post, vero?
Questa riflessione capita a proposito, ho cominciato da poco il mio viaggio nella lingua tedesca, ora ho uno stimolo in più e la voglia di cercare e leggere i libri citati, grazie! Laura
il fascino della lingua tedesca, per me italiano, è pari a quello di una donna tedesca, per me suo marito.
[…] Alla lingua tedesca […]
[…] Mi ha riportato alla mente i miei tanti taccuini, che ancora conservo. Mi ha ricordato quanta della mia passione per il linguaggio e la scrittura debba allo studio di lingue diverse dalla mia, e soprattutto alla più amata di sempre, il tedesco, cui dedicai un post tantissimo tempo fa, agli albori di questo blog: Alla lingua tedesca. […]
Luisa, condivido in pieno tutto quello che hai scritto nel post: anche io riesco a essere editor grazie alla precisione, suono e pause del tedesco ascoltato a scuola. E anche io come il piccolo Elias dovevo impararlo a memoria prima con le orecchie e poi con la penna. E’ una lingua esigente e musicale, semplice e non ambigua, profonda. Lo considero il mio unico approccio scientifico al mondo. Il fatto di sognare a volte in tedesco mi fa capire che è parte di me e non solo una riga in più nel cv.
ciao
Alessia