Oggi sia il Corriere della Sera sia Repubblica parlano del libro di Silvia Pertempi Romanzi per il macero, appena pubblicato da Donzelli. Un libro sull’Italia che scrive invano e che invano spera in una pubblicazione che non arriverà mai.
Identikit dello scrivente: maschio, colto, quarantenne, settentrionale, infelice e frustrato, molto simile al personaggio del film Caterina va in città interpretato da Sergio Castellitto.
I temi: solitudine, infelicità, erotismo.
Dov’è la felicità? si domanda l’autrice del libro. È più o meno la domanda che mi faccio anch’io quando ricevo – e ne ricevo tante – le mail di scrittori in cerca di pubblicazione. E il mio è chiaramente un sito di scrittura professionale, non creativa. Non riesco a immaginare cosa possono ricevere le case editrici o le agenzie letterarie.
Ma riesco facilmente a immaginare il tempo rubato al sonno, alla famiglia, all’aria aperta. Scrivere è un’attività solitaria, che esige isolamento, distacco e silenzio. Non sempre se ne ha voglia. Ci sono spesso mille cose migliori da fare.
L’idea di tutte queste persone chiuse in una stanza di notte a scrivere, ma poi soprattutto a dannarsi l’anima per pubblicare mi mette tristezza.
Naturalmente sono solitudini e ambizioni che sono sempre esistite, ma internet le mette in luce come mai prima e dà delle illusioni cui è difficile sottrarsi.
Il mio non è certo un invito a rinunciare a scrivere, se questo fa piacere, gratifica e aiuta a vivere (tutti noi in fondo – e io per prima – lo facciamo per questo), ma a cercare il riconoscimento a tutti i costi, questo sì.
Non è meglio allora confezionarsi il libro in casa, farsi fare una stampa on demand, pagarsela, organizzare una bella cena e regalare il libro ad amici e parenti?
Io, dieci anni fa, l’ho fatto con la storia della mia famiglia, che mi è costata weekend di clausura, revisioni su revisioni, e laboriose ricerche in archivio. Alla fine il libro è stato fatto in casa e distribuito a tutti i parenti in occasione del pranzo di Natale.
È stata una cosa memorabile, molto meglio di una presentazione in una libreria alla moda.
Io scrivo per me. Perche’ scrivere – quando riesco a farlo – alleggerisce la mia solitudine. In giornate feroci, a volte un’immagine riesce a farsi strada in me, e a rompere la cortina grigia delle ore.
La mimosa scuote
gialli fiori
disperata nel vento
La scrittura e’ l’unica terapia che conosco.
Ma certo, l’angoscia da pubblicazione non riesco a capirla. Pero’ posso ammettere che esista.
C’e’ che si deprime per un amante inesistente, chi si stressa sul lavoro, non vedo perche’ non dovrebbero esserci gli scrittori frustrati.
E se questi si palesano meglio di altre categorie, è perche’ esistono le case editrici che raccolgono manoscritti su manoscritti.
Se esistessero editori -per cosi’ dire- verticali, tipo
“Edizioni L’Amante Che non C’era” o “Poltrone Mancate Editore”, credo che emergerebbero molte altre tristezze.
Scrivere, comunque, credo che faccia compagnia, indipendentemente dallo spirito con cui uno si accinge a farlo. Se poi ci sente soli, allora si, può essere davvero una terapia.
Il problema è che molti non scrivono perché amano scrivere o perché hanno qualcosa di urgente da comunicare (una storia, un’immagine, un idea del o sul mondo, un’emozione, un sentimento), ma perché amano sentirsi e vorrebbro farsi riconoscere come scrittori (un po’ come amare l’idea di essere innamorati e non una persona concreta, in carne e ossa). Beh…questo sì che è molto triste. Se non si ha nulla da dire, meglio, molto meglio stare zitti. A meno che scrivere non sia un lusso/sfizio da tardo impero (e così ?!).
Io scrivo per un lettore ignoto, un lettore che ancora non sa di essere tale, come per i messaggi in bottiglia – un lettore che non si cerca, e che può solo essere trovato.
Dunque niente letture in famiglia please.
oggi credo che sia veramente un fatto d’élite stamparsi un libro e regalarlo: ci si differenzia