A volte pensiamo che certi temi siano talmente lontani dai nostri interessi che non ci lasciamo nemmeno tentare dalla curiosità. Oppure che siano talmente specialistici da coinvolgere solo un manipolo di studiosi fanatici.
Io sono decisamente una di queste persone prevenute. Almeno finché, come mi è successo stamattina, gli steccati dei miei personali interessi vengono buttati giù da qualcuno che ha una sua passione così grande da tirarci dentro anche me, almeno per un po’.
Oggi ho affrontato il traffico prenatalizio romano, peggiorato dalla pioggia battente, per andare alla presentazione di un calendario che la mia azienda ha realizzato per il Ministero delle Politiche Agricole, nostro storico cliente.
È un piccolo evento che si ripete da anni, soprattutto perché il mio collega che se ne occupa è un bibliofilo raffinato e non svela mai in anticipo il contenuto del calendario. Ci tiene all’oscuro del progetto, sappiamo solo che avrà a che fare con agricoltura, fiori e piante.
Il rituale quest’anno si è arricchito e si è svolto in un posto a sorpresa: la biblioteca ottocentesca del Ministero, che ci ha accolto con suo odore intenso e un po’ dimenticato di legno, cera e carta. Scaffali altissimi, schedari con centinaia di cassettini, etichette di ceramica bianca. In mezzo, grandi tavoli da consultazione. Sopra, i calendarietti da tavolo, un particolare di pianta, fiore o giardino tratto dagli affreschi di Pompei per ogni mese.
Gli affreschi in gran parte li conoscevo, ma non immaginavo che da quei quadratini di foglie, rose e uccellini si potesse partire per un viaggio dentro una disciplina sconosciuta: l’archeologia vegetale.
A condurci, con tanto di diapositive, è stata una appassionata signora che per l’appunto studia non i resti di statue ed edifici, ma i tronchi, le colture, le piante e i profumi seppelliti, insieme alle persone e alle case, dalla colata di lava e dalla pioggia di cenere nell’antica Pompei.
Gli archeologi vegetali fanno i calchi dei tronchi, studiano e identificano le piante dagli affreschi superstiti o dai lavori di oreficeria, tracciano le direzioni delle colture, restaurano i giardini piantando le piante che vi si trovavano in origine, scoprono che nelle campagne intorno a Napoli i sistemi agricoli e le specialità del luogo non sono cambiati poi molto in duemila anni.
Le cose e le tracce parlano, quando sono osservate e studiate con passione. Il “giardino del profumiere” conteneva tutto quello che serviva per confezionare unguenti e balsami odorosi: l’olivo, il mirto e la rosa; i vasi a testa in giù lasciati a scolare rivelano che l’eruzione ha sorpreso i pompeiani alla vigilia della vendemmia; un tipo particolare di rosa, che si pensava arrivata in Europa intorno al 1100, fa già capolino tra gli oleandri.
E mentre ci apprestavamo a lasciare a malincuore il giardino dipinto, l’archeologa vegetale ci invitava a Pompei per ammirare uno dei suoi tesori più preziosi: una rarissima collezione di pigne affumicate.
Con leggerezza hai trascinato il lettore nella magica atmosfera di un luogo e di un momento quasi fuori dal nostro affannato tempo.
Brava, efficace. Come al solito.
Molto meglio quando tratti “non di bilancio consolidato”.
Ma in quel caso il disappunto è per l’oggetto…
P.S. il commento, non adatto alla pubblicazione, è di una tua ammiratrice di sempre che lavora, risiede, soffre e gioisce nel profondo sud.