C’è una parte importante, per me essenziale, del processo della scrittura, cui non sono mai riuscita a dare un nome.
È l’insieme delle parole (c’è dentro di tutto, dagli aggettivi agli avverbi, a frasi intere) che mi aiutano a cominciare, a scrivere la prima stesura, e che poi regolarmente butto via in fase di revisione.
Fino ad oggi le ho chiamate “le parole-stampelle”, ma c’è un’espressione molto più azzeccata: “l’impalcatura”. Me l’ha suggerita Chip Scanlan, autore di un bellissimo pezzo pubblicato un paio di giorni fa su Poynter: Dismantling Your Story’s Scaffolding.
Chip ricorda di aver passato un’estate a lavorare in un cantiere e di aver fatto allora un lavoro molto simile a quello che fa oggi il redattore: nel cantiere architettura reale e architettura di sostegno costituiscono un tutt’uno, ma a lavoro finito assi di legno e tubi di ferro si buttano via per lasciar risaltare tutta la bellezza dell’edificio finito.
Le mie impalcature sono fatte soprattutto di lunghissimi avverbi (estremamente, concretamente sono i top) o inutili connetivi (quindi, di conseguenza, inoltre). Lo so e già alla prima rilettura butto tutto.
Ma non è un lavoro inutile: senza la mia comoda impalcatura, certi lavori non li comincerei mai. L’impalcatura serve a focalizzarci sui contenuti, a organizzare le idee, a strutturare il testo.
Quanto a Chip, nel suo pezzo sostiene giustamente che “ciò che fa parte del processo della scrittura non deve necessariamente fare parte del processo della lettura”, e indica le sue parole o frasi-impalcatura preferite: domande retoriche, avverbi, o semplicemente l’incipit “questo articolo parla di…”.
E nel migliore stile Poynter, l’articolo si chiude con un’apertura, ovvero l’invito a segnalare le proprie parole e frasi.
Vincenzo Cerami, viene spesso duramente criticato per il suo “Consigli a un giovane scrittore”, ma in quel lavoro, usa spesso il termine “falegnameria”, anche se forse con un significato più esteso di quello che dai tu a “impalcatura”.
Non vorrei sbagliare, ma sia pure con termini diversi, il tema è ricorrente in Carver, Faulkner, Vargas Llosa, Ceckov ed altri che probabilmente ancora non conosco.
Carver, in particolare,dice: “…le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è bene che siano quelle giuste”.
Sembra una cosa ovvia, ma quanto ce ne passa tra comprenderla e metterla in pratica.
Qualcosa di simile ha detto anche George Orwell, ma non ricordo il testo… l’ho studiato con la Piemontese, ma ora sono fuori casa. Beh, se lo ripesco ti dico bene tutto.
Grazie di questi preziosi post.
Mauro